Il trapianto è un dono enorme, ma andando verso una consapevolezza diversa, ritengo che vi sia nascosta un’altra sorpresa.

Son passati poco più di quattro mesi dal mio secondo trapianto e ne sono successe di cose. Tra tutto, ho avuto anche parecchio tempo per pensare. A qualcuno non piace fermarsi, è una perdita di tempo.
Io non lo ritengo così disdicevole fermarsi e pensare (positivamente, si intende). Pensare, quasi meditare, su quello che succede e mi sta attorno; direi che è un passaggio fondamentale e magico allo stesso tempo.

Prendere consapevolezza anche solo del proprio resipiro, che cambia in base allo stato del proprio corpo, è un’esperienza che bisogna provare. Ma non è questo il punto.

Sono passati 22 anni dal mio primo trapianto e lo svolgimento del secondo, per fortuna, ha lo stesso decorso. Qualche problema, un paio di ricoveri extra. Ci si fida dei medici (e a quel tempo, internet e cellulari erano solo nei sogni di noi giovani nerd), si chiacchiera a viso a viso con altri pazienti e poi, quello che arriva, arriva.

Ed è arrivata ad un certo punto, una scintilla, un qualcosa che prima non avevo. Qui si va sul trascendente, certo, molto personale, come quasi questa abitudine di noi trapiantati di dare un nome all’organo donato.
Questa scintilla io la chiamo “eredità genetica dell’organo donato”. Sono certo che un genetista (o un medico generico) inorridisca nel leggere questa frase. Però, ripeto, secondo me chi ci ha donato l’organo, ci ha donato qualcos’altro di se. Magari una particolare passione, o qualche predisposizione a fare qualcosa di inusuale per noi.

Vi racconto meglio: oggi come allora, sono nella fase “neonato”. Ovvero, sto cominciando a ri-conoscere il mio corpo. Dopo un trapianto, per quanto poco il corpo si deve abituare al nuovo ospite, le medicine e ai loro effetti. Un pò come un bambino piccolo che è alle prese con quella cosa che ha cinque dita e che pensandoci, riesce a comandare, ma ancora non sa bene come. Poi passa alle gambe e riesce pure stare in piedi. Poi con quella cosa che ha cinque dita chiamata “mano”, riesce pure ad arrangiarsi a mangiare, stringendo forte il cucchiaio e a volte, non ha più bisogno della tetta da succhiare (anche se per certi maschietti, l’istinto rimane forte per tutta la vita… 😉 ). E così si cresce e si diventa autonomi.

E anche noi, ci stacchiamo dalle cure amorevoli dei sanitari e cominciamo a ri-vivere la nostra vita! Ma con qualcosa in più, quell’eredità genetica di cui sopra parlavo.

Andiamoci cauti, logicamente: da sempre la cucina per me è stato un ambiente totalmente estraneo. Non sapevo distinguere un mestolo da una forchetta. Certo, direte voi, a 20 anni non sempre un uomo riesce a capirlo. Però fatto il trapianto, mi è saltata improvvisamente la voglia di imparare a cucinare e tutt’oggi, mia moglie mi ringrazia per le cose che le cucino. Per non parlare della propensione di scrivere cose come quella che state leggendo ora, in certi momenti scrivere è per me necessario come respirare, una cosa che da piccolo odiavo fare. Ricordo benissimo i voti che prendevo a scuola, la mia grammatica era scadente e la voglia di studiare italiano pessima (ok, potete dire che non sono migliorato molto, eh…).

Ora, dopo tutto quello che ho scritto, mi ritengo ancora in fase “neonatale”, ma aspetto pazientemente di scoprire se davvero c’e’ qualche novità nel dono (anche se, forse, qualcosa già si intravede). Tra le altre cose, è la prima volta che ne parlo in pubblico e chissà se qualcuno ha provato la mia stessa esperienza. O se definitivamente, mi prenderete per pazzo!!

In ogni caso, aspetto le vostre reazioni.
Buona vita,
Mirko